Olga

Articoli nella categoria Diritto collaborativo e ADR

FAVORIRE LA COMUNICAZIONE

Il Diritto Collaborativo riesce a convincere le parti che la vera vittoria, in una separazione, è diventare capaci di assumersi le proprie responsabilità. Non conta di chi sia l’iniziativa della separazione né chi sia responsabile del fallimento del matrimonio perché, grazie a questo tipo di processo si diventa capaci di orientare le proprie scelte e risolvere il caso, più di quanto non lo siano, nel processo tradizionale, giudici, avvocati o mediatori. Nel modo di agire consueto c’è il vantaggio, in caso di fallimento, di attribuirne la responsabilità ad altri: l’avvocato, l’altro coniuge, il sistema giudiziario, la legge e ciò può dare temporaneamente sollievo. Per comprendere se si è adatti alla pratica Collaborativa occorre chiedersi se si è disponibili ad accettare le proprie responsabilità, impegnandosi a risolvere le difficoltà insieme all’altro coniuge e ai rispettivi legali. Il rischio di veder naufragare le trattative è insito nella tendenza a credere che il successo della propria separazione dipenda dall’avvocato, come nel metodo tradizionale, in cui si ritiene che la vittoria in causa dipenda dall’eccezione processuale o dalla norma che il buon legale conosce e sa utilizzare. Nello sconvolgimento emotivo determinato dalla decisione di separarsi i pensieri si concentrano su questioni urgenti e su problemi che necessitano di soluzioni immediate. Con la formazione in diritto Collaborativo invece l’avvocato chiede al proprio assistito di distogliere l’attenzione dai problemi che sembrano improcrastinabili e di concentrarsi sulle questioni che potrebbero rivelarsi determinanti nel lungo periodo.

La separazione personale di solito viene affrontata come una questione esclusivamente giuridica. Nel processo tradizionale si trascurano gli aspetti emotivi di una relazione che non funziona più e che ha bisogno di essere sovvertita nelle modalità di interazione. Il primo passo importante è blandire la violenza dei sentimenti di ostilità e non indirizzarli verso l’altro coniuge, per non vanificare la possibilità di un accordo duraturo. Comprendere le dinamiche relazionali della coppia durante il matrimonio implica il misurare la fiducia reciproca, la tendenza a recriminare, la pretesa di controllo sull’altro. Talvolta si tratta semplicemente di uno sbilanciamento di potere: spesso uno dei coniugi ha un ruolo dominante che può dipendere da vari fattori come la disponibilità finanziaria o lo status sociale di origine, l’abilità nel controllare le proprie emozioni o la formazione culturale e intellettuale. La coppia deve essere aiutata a creare un ambiente sereno in cui sentirsi a proprio agio, senza che nessuna delle parti eserciti forme di intimidazione o di indebito controllo sulla trattativa. Nessuno deve sentirsi spaventato, obiettivi e aspirazioni devono poter essere espressi in tranquillità e senza timori di rappresaglie. Le parti debbono sentirsi libere di valutare le proposte e di avanzare obiezioni, con l’espresso divieto di scambiarsi accuse e offese perché, se è naturale provare rabbia e altri sentimenti negativi, questi, d’altro canto, ostacolano la possibilità di considerare la soluzione migliore. Gli avvocati e gli altri eventuali professionisti devono aiutare la coppia a recuperare la capacità di comunicare, consolidandola.

Dal punto di vista terminologico nella negoziazione l’interesse-desiderio è il bisogno primario connesso agli obiettivi centrali della vita di una persona, mentre la posizione-pretesa è una manifestazione di volontà non necessariamente connessa a un bisogno. Distinguere tra posizione-pretesa e interesse-desiderio è importante nell’ambito delle questioni finanziarie o del tempo da trascorrere con i figli. Un esempio molto comune è l’asserzione “voglio l’affidamento esclusivo dei figli” in cui, sebbene l’interesse-desiderio del genitore sia trascorrere del tempo significativo con la prole, egli assume automaticamente la posizione-pretesa piuttosto che pensare a come potrebbe soddisfare il suo bisogno, a prescindere dalla definizione legale.

Se si mette la coppia in condizioni di indagare le motivazioni di fondo non attraverso il linguaggio giuridico, che raramente si comprende, ma con il dialogo strategico e il linguaggio assertivo, è più facile che essa ottenga i risultati attesi. Al cliente spesso non è chiara la motivazione sottesa a una specifica pretesa che talvolta non coincide, o addirittura è in contrasto, con i suoi reali bisogni e i valori in cui crede. Può accadere che la parte constati che la posizione-pretesa coincide piuttosto con l’inconscia volontà di creare un contesto vinto-vincitore cui può rinunciare, perché non indispensabile alla soddisfazione del suo interesse-desiderio.

Olga Anastasi © Riproduzione riservata

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SBLOCCARE LA SITUAZIONE

Il Processo Collaborativo fallisce in bassissima percentuale. I rari insuccessi sono ascrivibili al mancato raggiungimento dell’accordo definitivo, sebbene le parti coinvolte condividano lo spirito del metodo, a causa dello scarso impegno individuale nonostante le indicazioni e i suggerimenti degli avvocati e degli altri professionisti. Abbandonare il metodo Collaborativo implica rinunciare al sostegno dell’avvocato che ha seguito il caso e obbliga a rivolgersi ad altri professionisti disposti ad affrontare la causa. In queste circostanze è inevitabile provare un profondo senso di fallimento al quale si aggiunge la preoccupazione circa gli esiti incerti cui espone un procedimento giudiziario.

Qualora ci si renda conto che il processo sta subendo impasse di notevole portata, tale da bloccare le trattative, impedire progressi, mettere addirittura a repentaglio l’accordo definitivo, si possono adottare delle tecniche e utilizzare degli accorgimenti adatti a rimuovere le resistenze e allentare le discussioni:

  1. sospendere il Processo:
  2. riepilogare il percorso e considerare ciò che resta ancora da risolvere;
  3. sollecitare le parti a rivedere i punti dell’Accordo Partecipativo e lavorare di nuovo verso obiettivi specifici e comuni; ciò aiuta a segmentare i problemi in passaggi più facili e risolvibili;
  4. rinviare le discussioni su un determinato tema e passare ad altro, chiarendo che si tornerà in seguito sull’argomento;
  5. concedersi e concedere il tempo necessario a razionalizzare e prendere le distanze; assegnare alle parti precisi compiti da svolgere individualmente;
  6. se è necessario affrontare nuove questioni, utilizzare una modalità dubitativa;
  7. fare un passo indietro e considerare di nuovo quali siano davvero i bisogni sostanziali, psicologici o procedurali;
  8. verificare le prospettive;
  9. incoraggiare i clienti a rivedere i propri BATNA[1] e MLATNA[2];
  10. ricordare alle parti che, anche se l’opzione proposta può non apparire perfetta, è sempre preferibile all’eventualità di lasciare irrisolta la controversia;
  11. sottolineare i progressi incoraggiando le parti a considerare l’accordo nel suo complesso;
  12. ricordare a tutti che l’atteggiamento che sta generando la situazione di stallo può impedire ulteriori progressi; le parti non sono tenute a cambiare, ma in questo caso il problema si ripresenterà;
  13. discutere solo alla fine del processo.
  14. Altre tecniche:
  15. se i partecipanti rifiutano l’opzione proposta e gli attribuiscono la responsabilità dell’impasse, indurli a interrogarsi su un’alternativa praticabile;
  16. per alcuni problemi potrebbe essere necessario trovare urgentemente una soluzione anche provvisoria, salvo riesaminarla dopo un certo periodo di tempo;
  17. coinvolgere esperti esterni per aiutare i partecipanti a interagire o acquisire un punto di vista oggettivo;
  18. chiedere pareri scritti ad altri professionisti, se emergono dati che impediscono il progresso della trattativa;
  19. adottare il silenzio;
  20. chiedere alle parti cosa farebbero per rendere il processo più efficace;
  21. in sessione separata, ottenere che il cliente esprima aspettative o alternative, rimandando la condivisione a un momento successivo;
  22. come ultima opzione, proporre alternative ulteriori in modo che le parti possano considerarle, conservando facoltà di scelta.

[1] BATNA è l’acronimo di Best Alternative To a Negotiated Agreement ossia la migliore alternativa rispetto all’accordo negoziato. Il BATNA è il punto di partenza di qualsiasi negoziazione. Quanto più è forte e appetibile l’alternativa tanto più aumenta il potere negoziale. Per questo prima di accettare una proposta è fondamentale valutare attentamente quali siano le alternative possibili.

[2] MLATNA è l’acronimo di Most Likely Alternative To a Negotiated Agreement, ossia l’alternativa preferibile all’accordo negoziato. WATNA sta invece per Worst Alternative to a Negotiated Agreement, la peggiore alternativa possibile.

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L’ESORDIO EDITORIALE DEL DIRITTO COLLABORATIVO IN ITALIA

La mia prima pubblicazione Il Divorzio Collaborativo edito da Capponi Editore nell’ottobre 2013 rappresenta l’esordio editoriale in Italia del Diritto Collaborativo, del metodo e della pratica con cui si attua. Durante i numerosi incontri che si sono succeduti nel corso del 2014, le riflessioni nate dai seminari di studio e dalle conversazioni con i lettori che hanno accompagnato le presentazioni ad Ascoli Piceno, Foggia, Civitanova Marche, Roma, Prato, San Benedetto del Tronto, Ancona, Lecce e Torino, hanno dimostrato che un pubblico eterogeneo, non solo di addetti ai lavori, è unanimemente interessato e desideroso di poterlo utilizzare.

Ronald D. Ousky, avvocato mediatore e mio mentore, senza il quale il Collaborative Law sarebbe rimasto probabilmente solo uno dei percorsi formativi da me intrapresi, ha dedicato a questa edizione una efficace introduzione, con la fiducia e la convinzione che, attraverso questo libro, riuscirò a far apprezzare e diffondere il Diritto Collaborativo in Italia.

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LEGGE 162 DEL 2014: AL VIA LA PROCEDURA DI NEGOZIAZIONE ASSISTITA

CONVERTITO IN LEGGE IL DECRETO LEGGE 132 DEL 2014: AL VIA LA PROCEDURA DI NEGOZIAZIONE ASSISTITA http://lnx.camereminorili.it/negoziazione-assistita-nelle-materie-famiglia-entra-in-vigore-commento-uncm/

Premessa

La Camera ha approvato in maniera definitiva la riforma della giustizia civile, convertendo in legge il Decreto legge 132/14 nel testo in precedenza licenziato dal Senato.

Infatti, il 23 ottobre 2014, con 161 voti favorevoli e 51 contrari, l’Assemblea del Senato ha rinnovato la fiducia al Governo, approvando il maxiemendamento interamente sostitutivo del Disegno di legge n. 1612 di conversione del decreto legge 12 settembre 2014, n. 132, recante misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile.

Le disposizioni del Capo II – articoli da 2 a 11 – approvate nel testo definitivo hanno ad oggetto la disciplina della procedura di negoziazione assistita da uno o più avvocati, con la quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole una controversia vertente su diritti disponibili. Sotto numerosi profili esse mutuano soluzioni già sperimentate dal Legislatore con il Decreto legislativo 28/2010 in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.

La nuova previsione normativa prevede l’applicabilità della negoziazione assistita alle soluzioni consensuali di separazione personale, di cessazione degli effetti civili o di scioglimento del matrimonio, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio, con un preciso dovere deontologico per gli avvocati di informare il cliente, all’atto del conferimento dell’incarico, della possibilità di ricorrere alla convenzione, posto che la mancata informativa costituisce infrazione disciplinare.

  1. Le modifiche apportate in sede di conversione

Sono state recepite solo in parte le osservazioni e proposte che il 30 ottobre erano state presentate dalle associazioni più rappresentative in materia di famiglia e minorenni: AIAF, AMI, Cammino, Osservatorio, UNCM. Le novità, rispetto al testo pubblicato in Gazzetta, riguardano innanzitutto la previsione che la negoziazione sia condotta non da un solo avvocato ma dagli avvocati di entrambe le parti, ove non siano rappresentate dallo stesso difensore.

Il Legislatore ha previsto alcune ipotesi in cui l’esperimento della procedura di negoziazione assistita è obbligatorio in quanto condizione di procedibilità della domanda. In nessun caso, tuttavia, in materia di famiglia e minorenni il mancato esperimento della negoziazione assistita potrebbe costituire motivo di improcedibilità, né dovrebbero applicarsi le sanzioni di cui all’art. 4, ai fini delle spese del giudizio, nel caso di mancata risposta o rifiuto dell’invito a stipulare la convenzione. In caso di relazioni abusanti e/o violente ovvero “squilibrate” sul piano delle posizioni di potere (emotivo e/o economico), dunque non mediabili, la mancata risposta o il rifiuto potrebbero risultare addirittura necessari e la mediazione tale da recare danni alla relazione e alle parti.

La convenzione deve indicare:

il termine concordato dalle parti per la conclusione della procedura, in ogni caso non inferiore a un mese. Al Senato tale previsione è stata integrata, aggiungendo anche un limite massimo di durata pari a tre mesi, prorogabile per ulteriori trenta giorni su accordo delle parti;

l’oggetto della controversia, che non deve riguardare diritti indisponibili né, a seguito di una modifica apportata dal Senato, le cause di lavoro.

L’art. 2 prevede poi che la convenzione sia conclusa per un periodo di tempo determinato dalle parti, fermo restando i citati limiti, e che essa debba essere redatta, a pena di nullità, in forma scritta.

  1. La negoziazione assistita nell’ambito delle controversie familiari

2.1 L’articolo 6 regola una particolare forma di convenzione di negoziazione assistita finalizzata specificamente alla soluzione consensuale stragiudiziale delle controversie in materia di separazione personale, di cessazione degli effetti civili e scioglimento del matrimonio ovvero di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio.

Il testo approvato dal Governo in via provvisoria vietava il ricorso alla convenzione di negoziazione assistita in presenza di figli minori o di figli maggiorenni incapaci, portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti.

Tuttavia in sede di conversione è stata introdotta la possibilità di raggiungere un accordo anche in tali ipotesi, previa valutazione degli interessi dei figli. L’accordo deve essere trasmesso entro 10 giorni al pubblico ministero presso il tribunale competente. Il PM lo autorizza quando lo ritiene rispondente all’interesse dei figli. In caso contrario, l’accordo deve essere trasmesso entro 5 giorni dal PM al Presidente del Tribunale che fissa, entro i successivi 30 giorni, la comparizione delle parti e provvede «senza ritardo».

Altra novità rispetto al testo iniziale consiste nel fatto che anche l’accordo concluso in assenza di figli minori o di figli maggiorenni incapaci, portatori di handicap grave ovvero economicamente non autosufficienti debba essere trasmesso al PM che, ove non ravvisi irregolarità, concede agli avvocati il nullaosta per la trasmissione dell’accordo stesso agli uffici di stato civile competenti.

La modifica si è resa necessaria in relazione a una serie di disposizioni vigenti, in particolare all’intervento obbligatorio del Pubblico Ministero in tutte le cause matrimoniali e riguardanti i figli minorenni. Sarebbe stato più opportuno adottare la proposta di emendamenti delle associazioni specialistiche che prevedeva la trasmissione dell’accordo di negoziazione al giudice per l’omologa, previo parere del PM, e conseguente applicazione della previsione di cui 158, co. II, c.c.

Non è fuor di luogo evidenziare che la nuova disciplina rafforza l’ipotesi della necessità di un Tribunale unico, laddove si rende inevitabile individuare il Procuratore competente ad emettere il parere di cui all’art. 6.

La fase di esame non è disciplinata nei tempi di risposta che potranno variare da Ufficio a Ufficio senza alcuna certezza; oltretutto la normativa non impone alle parti di fornire alla Procura anche i documenti su cui esso è fondato, limitando notevolmente il controllo che su tale accordo può essere fatto dal Pubblico Ministero con riferimento ai diritti indisponibili posti a tutela dei minori. Inoltre la verifica da parte del Presidente del Tribunale su rinvio del Procuratore, che dovrebbe avvenire “senza ritardo” e previa comparizione delle parti, non è regolata chiaramente, né in ordine ai destinatari della notifica del decreto di fissazione dell’udienza – se siano le parti personalmente o i propri legali -, né sul rito applicabile all’udienza stessa né infine sul provvedimento con cui essa deve concludersi.

Tenuto conto anche delle modifiche intervenute in tema di termine di durata della separazione, necessario ai fini della domanda di divorzio, ci si chiede se esso, nei casi di diniego di nulla osta da parte del Pubblico Ministero, debba decorrere dalla “data certificata” nell’accordo o da altra, diversa, per esempio quella di comparizione delle parti davanti al Presidente.

Un ulteriore aspetto che merita di essere sottolineato è la mancata previsione dell’istituto in questione per l’affidamento dei figli nati fuori dal matrimonio. In sede di approvazione degli emendamenti, nell’estendere la procedura di negoziazione anche in presenza di figli minori o maggiorenni ma non autosufficienti, il legislatore avrebbe dovuto tenere conto delle modifiche introdotte al processo civile a seguito della l. 219/12 ed evitare una discriminazione che oggi non ha più ragione di esistere.

L’omesso riferimento al nuovo art. 316 c.c. si pone certamente in contraddizione sia con lo spirito del legislatore del 2012, volto ad eliminare ogni distinzione tra figli, sia con la ratio del Decreto legge 132/14 laddove lascia immutata un procedura che, al pari di quelle in esso disciplinate, avrebbe ben potuto trovare soluzione anche fuori dalle aule del Tribunale.

L’esigenza di rendere più celeri anche le controversie tra genitori non uniti in matrimonio è stata più volte sottolineata dalla giurisprudenza di merito, ribadendo la necessità di ricavare una fase preliminare di tipo conciliativo in analogia a quanto accade nel rito della separazione e del divorzio (cfr. decreto Tribunale di Milano del 31 maggio 2013 e del 4 novembre 2013) e si auspica, pertanto, un ulteriore intervento normativo volto a rimediare questa ulteriore “svista” del legislatore e a eliminare definitivamente ogni distinzione.

2.2 Raggiunto l’accordo, con la sottoscrizione apposta dall’avvocato per l’autenticità delle firme, dovrà essere trasmesso entro il termine di dieci giorni all’ufficiale di stato civile del Comune nel quale il matrimonio fu iscritto o trascritto per l’aggiornamento dei registri. Al fine di renderlo certo e tempestivo è stata prevista, in capo all’avvocato che viola il termine di dieci giorni, una sanzione compresa tra duemila e diecimila euro. Il procedimento di controllo del rispetto dei tempi è delegato al Comune che deve effettuare l’annotazione dell’atto di negoziazione.

A seguito della modifica introdotta dal Senato il 23 ottobre viene precisato che l’accordo dà atto che gli avvocati, anche in assenza di figli, hanno tentato di conciliare le parti, le hanno informate della possibilità di ricorso alla mediazione familiare (il tentativo di conciliazione è obbligatorio nell’ordinario procedimento giudiziale) e le hanno rese edotte dell’importanza per il minore di trascorrere tempi adeguati con ognuno dei genitori.

La definizione della convenzione è pienamente sostitutiva e produce quindi gli effetti dei provvedimenti giudiziali che definiscono i procedimenti di separazione personale, di cessazione degli effetti civili del matrimonio, di scioglimento del matrimonio e di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. L’art. 5 prevede che, in caso di inadempimento, l’accordo debba essere integralmente trascritto nel precetto ai sensi dell’articolo 480, secondo comma, del codice di procedura civile, senza tuttavia specificare se l’attestazione di conformità del testo trascritto sia onere dell’avvocato o di altra autorità competente, per esempio l’Ufficiale giudiziario.

Va poi evidenziato che, mentre nella normativa sulla mediazione di cui al D. Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, come modificato dalla Legge n. 98 del 9 agosto 2013, l’art. 11 stabilisce espressamente che l’accordo amichevole venga allegato al processo verbale redatto dal mediatore e, sottoscritto da tutte le parti, resti depositato presso l’organismo di mediazione, in materia di negoziazione al Legislatore è sfuggito che, in assenza di registri o archivi all’uopo preposti, non è chiaro chi sia tenuto alla conservazione dell’originale, con il risultato che la mancata previsione esporrà il cittadino, parte della negoziazione, al rischio di smarrire incolpevolmente o vedere distrutto l’originale consegnatogli dal proprio avvocato.

L’articolo 9, infine, con una norma poco chiara e non rispondente alla funzione della mediazione, individua obblighi di lealtà e riservatezza dei difensori cui è affidata la procedura di negoziazione assistita; il Senato ha aggiunto all’articolo 9 un comma 4-bis con cui la loro violazione viene considerata illecito disciplinare.

  1. La procedura conclusa dinanzi al Sindaco

Nonostante il contrario parere delle associazioni specialistiche, è stata confermata dall’articolo 12 la possibilità di concludere dinanzi al sindaco, quale ufficiale dello stato civile (il Senato ha così sostituito il riferimento alla comparizione davanti all’ufficiale dello stato civile) del comune di residenza di uno dei coniugi (ovvero di iscrizione o trascrizione dell’atto di matrimonio) un accordo di separazione o di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili o, infine, di modifica delle condizioni di separazione o di divorzio. Il Senato ha previsto l’espresso riferimento all’assistenza facoltativa di un avvocato, con la preclusione dell’applicabilità alle coppie che intendano dirimere tra loro anche questioni patrimoniali e a quelle con figli minori, figli maggiorenni incapaci o portatori di handicap di cui all’articolo 3, comma 3, della legge 104 del 1992 ovvero economicamente non autosufficienti.

Si rileva che in tale ipotesi sia l’assenza del Pubblico Ministero, sia le eventuali pressioni del coniuge forte nei confronti del debole, in uno alla possibilità che accordi raggiunti dalle parti senza l’ausilio dell’avvocato possano non essere coerenti con la normativa e ingenerare ulteriore contenzioso, rendono la previsione dell’art. 12 potenzialmente lesiva di diritti. Al riguardo si rileva che la Convenzione di Instanbul del 11 maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza delle donne e la violenza domestica, all’art. 48 prevede espressamente il divieto di adottare i metodi alternativi di risoluzione dei conflitti nei casi di violenza alle donne e di violenza domestica comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata, sancendo espressamente che gli Stati devono adottare le misure legislative volte a vietare i metodi alternativi di risoluzione dei conflitti, tra cui la mediazione e la conciliazione, per tutte le forma di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione.

Conclusioni

L’introduzione dell’istituto della negoziazione assistita nel nostro ordinamento mira essenzialmente ad alleggerire il carico dei Tribunali e a rendere più snelle e veloci le procedure consensuali, con un notevole risparmio di costi sia per la Giustizia, sia fondamentalmente per le parti.

Tuttavia, è chiaro che le esigenze deflattive dell’ordinamento debbano essere adeguatamente bilanciate con la garanzia del rispetto di diritti costituzionalmente garantiti, la cui tutela minima non può mai essere sacrificata.

Ne consegue che la soluzione suggerita dal legislatore debba muovere da un’effettiva base volontaristica delle parti ed essere condotta da avvocati dotati di alta professionalità e specializzazione, i quali dovranno sempre più assumere il ruolo non del mero difensore, bensì dell’esperto competente e qualificato.

È auspicabile un ulteriore intervento normativo volto sia a garantire l’effettiva e non facoltativa presenza di un esperto anche nell’ipotesi di cui all’art. 12 del Decreto legge, che così come formulata risulta essere la previsione meno garantista dei diritti dei coniugi, sia la previsione della procedura di negoziazione di cui all’art. 6 anche alle ipotesi di affidamento di figli nati fuori dal matrimonio, che allo stato attuale, come sopra detto, crea un’ingiustificata disparità di trattamento assoggettando la famiglia di fatto e quella fondata sul matrimonio a riti e discipline differenti.

Avv. Serena Lombardo


Avv. Rebecca Rigon 
                       Responsabili Nazionali Settore Civile U.N.C.M.

Avv. Olga Anastasi                         Componente del Direttivo U.N.C.M.

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COS’È L’OPEN SPACE TECHNOLOGY? di Stefania Lattuille

Che cos’è l’Open Space Technology, ovvero, usando l’acronimo –più in voga- che cos’è l’OST?  In prima battuta si può definire l’OST come un METODO che consente di gestire incontri e riunioni in modo semplice ed efficace, aumentandone la produttività.

Cosa ha di speciale l’Ost? Tra tutti i vari metodi per facilitare la partecipazione e l’inclusione dei partecipanti nelle decisioni (tra gli altri, il Forum, l’ETM, il World Cafè, l’Action Planning), l’OST è di sicuro quello che ha avuto maggiore diffusione nei cinque continenti.

Negli ultimi trent’anni si è diffuso in tutto il mondo in modo sorprendente, tanto più che inizialmente la diffusione è avvenuta sulla base del principio “chi lo prova lo rifà”.

Ad oggi, milioni di persone hanno lavorato con la metodologia dell’Ost, che è stato adottato per gestire incontri da 5 a 2000 persone, sia in ambito pubblico che aziendale, e per trattare i temi più svariati: dalla progettazione di prodotti a cambiamenti organizzativi, dallo sviluppo di comunità alla riqualificazione ambientale.

Basti vedere il sito www.openspaceworld.org.

Ma come è nato? L’OST nasce negli anni ‘80 dalla constatazione di un antropologo prestato alla consulenza aziendale, Harrison Owen, secondo cui, al termine di una conferenza internazionale con 250 partecipanti, tutti – Owen compreso – concordavano sul fatto che i momenti più utili della conferenza erano stati i coffee break.

Considerata la mole di lavoro che ci vuole per organizzare una conferenza internazionale per 250 persone, la riflessione era di per sé depressiva, ma Owen invece, pare grazie anche ad un paio di Martini, si mise a ragionare sul perché.

Ora, come sappiamo, nelle pause caffè i partecipanti sono liberi di conversare con chi vogliono, per il tempo che ritengono opportuno e su problemi di loro interesse, nonché di scambiarsi biglietti da visita, idee e proposte. Per questo è ritenuto uno spazio vivo e interessante all’interno dei barbosi convegni organizzati in modo classico in cui si ascoltano relatori seduti in file rivolte verso il podio.

Da qui la domanda di Owen: “è possibile organizzare una conferenza con le dinamiche e la vitalità tipiche di un coffee break?”. Risposta: sì riproducendo i meccanismi di base della pausa caffè.

E allora cosa si è inventato Owen?

Anzitutto l’esperienza di antropologo/giornalista di Owen fu molto utile: si ricordò infatti di quando lavorava in Africa ed aveva assistito ai riti di passaggio all’età adulta degli adolescenti dei villaggi con feste articolate in cerimoniali aventi determinate caratteristiche: lo spazio vuoto circolare al centro del villaggio nel quale i danzatori confluivano durante cerimonie gioiose e l’abitudine di sedervisi in cerchio ogni volta c’era un problema da affrontare.

Dall’esperienza africana, Owen utilizzò il concetto di spazio aperto e di cerchio come forma geometrica fondamentale della comunicazione umana paritetica (dice Owen: “non è un caso se si dice un cerchio di amici e quanto sia piacevole rifugiarsi nella propria cerchia familiare”).

Quindi, primo, predisporre delle sedie in cerchio e farvici sedere persone interessate ad un dato tema.

Ma poi, si chiese Owen, come si decide di cosa ognuno può parlare, con chi e per quanto tempo?

E qui gli venne in mente una bacheca vuota da utilizzare per definire i contenuti e il programma dei lavori, come modo semplice ed efficace di rendere visibili le cose che interessano alle persone.

Ognuno può alzarsi, scrivere il titolo del tema che vuole trattare e appenderlo alla bacheca per poi trovarsi con coloro che vogliono condividere quell’interesse.

Per il quando e dove riunirsi, Owen pensò al fervore di un mercato indigeno come luogo in cui gli interessi delle persone si incontrano, dove la gente si incontra, va a bere qualcosa, si mette in un angolo a contrattare o a scambiarsi notizie.

 Ecco che era nato l’OST: sedersi in cerchio, creare una grande bacheca, aprire le trattative per decidere dove e quando trovarsi, iniziare a lavorare insieme suddivisi in gruppi.

I seminari organizzati secondo la metodologia OST non hanno infatti relatori invitati a parlare, non hanno programmi predefiniti o un’organizzazione predeterminata.

Al contrario, i partecipanti, seduti in un ampio cerchio, apprendono nell’arco della prima mezz’ora come faranno a creare il proprio forum. Il facilitatore si limita a presentare il tema da discutere e spiegare che il muro vuoto nella stanza rappresenta il programma del lavoro e che sarà costruito sul momento dai partecipanti stessi.

Chiunque intenda proporre un tema per il quale prova un sincero interesse, si alza in piedi e lo annuncia la gruppo, assumendosi la responsabilità di seguire la discussione e di scriverne un breve resoconto, dopodichè affigge in bacheca il titolo del tema e così via finchè il gruppo riempie la bacheca con tutte le sue proposte.

Quando i temi sono esauriti, tutti potranno osservare i vari argomenti emersi e decidere a quale gruppo unirsi. I gruppi formati si autogestiscono e producono, una volta esauriti gli argomenti di discussione, un report che unito a quello degli altri andrà a formare il cd. Instant Report di fine lavori.

Al termine della giornata è prevista la sessione di chiusura (oppure una sessione di aggiornamento dei lavori se l’OST è suddiviso in più giornate) e di solito l’OST si conclude con un rituale finale che dà la possibilità ai partecipanti di riflettere sull’esperienza fatta. Il tutto basato sui principi dell’informalità e dell’autorganizzazione.

Strumenti come l’OST creano non solo un clima di grande energia ma proprio nuove forme di relazione (che siano i cittadini chiamati a parteciparvi nell’ambito di un processo partecipativo o i partecipanti ad un incontro su un tema che interessa loro) basate su una diversa distribuzione dell’opportunità di parola, sul confronto tra pari, sulla valorizzazione delle diverse esperienze e la condivisione delle informazioni ed esperienze.

 L’OST quindi in realtà non è un metodo fantasioso per animare convegni, ma è molto di più: è un nuovo modo di guardare al lavoro di gruppo, “una sorta di esperimento sociale”! http://milanosservatorio.it/wp-content/uploads/2016/04/OSSERVATORI-ASS-MILANO-REPORT-OST-UDIENZA-CIVILE-DEF.pdf

IL RUOLO DI PACIFICATORE SOCIALE DELL’AVVOCATO

Da più parti si constata che l’avvocato che si occupa di famiglia e minorenni riveste un fondamentale ruolo sociale di pacificazione, di mediazione, e di cura nel percorso che chi è coinvolto in un procedimento inerente i diritti delle persone, come la separazione o il divorzio, è costretto ad affrontare. L’essere umano si trova nella condizione innata di proiettarsi in avanti, di gettarsi nel mondo e nel tempo, attraverso progetti mediante i quali realizza e incontra il suo divenire. In questo processo la propria Weltanshauung, cioè la rappresentazione della realtà e la visualizzazione di ciò che ci si aspetta da se stessi e dagli altri, muta completamente: nel demolire un disegno esistenziale fallito e ricostruirne uno nuovo, completamente diverso, è fondamentale decidere cosa salvaguardare del patrimonio costituito dal vissuto precedente.

Sono profondamente convinta che l’avvocato (dal latino ad-vocatus “chiamato vicino a”) nel processo di ermeneutica e traduzione (dal latino trans-ducere “condurre al di là”) delle richieste della parte verso l’istituzione giudiziaria, sia un vettore nelle due direzioni, dal cittadino verso l’istituzione e viceversa, nonché il protagonista che interpreta concretamente, con un linguaggio e una comunicazione adeguati, le disposizioni legislative o giurisprudenziali applicabili alla fattispecie del proprio assistito. Quando la vicenda processuale ha ad oggetto le relazioni personali è essenziale che l’avvocato utilizzi regole che tutelino il cliente e salvaguardino i legami familiari, alleggerendo l’impatto con le norme e alleviando il peso del giudizio che ne deriva; è altrettanto importante che adotti un linguaggio modulato sulle emozioni e sui sentimenti che i propri assistiti stanno vivendo, utilizzando buone tecniche di comunicazione.

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IL PRIMO LIBRO IN ITALIA SUL DIRITTO COLLABORATIVO

Il Divorzio Collaborativo di Olga Anastasi “è il primo libro in Italia che spiega a tutti in uno stile piano e agevole, eppure preciso negli approfondimenti tecnici e giuridici, in che cosa consista questo metodo rivoluzionario che coinvolge attivamente la coppia in crisi per aiutarla a vincere la paura, il dolore e il senso di perdita connessi a una separazione, sostenendola verso il raggiungimento di obiettivi condivisi”. Queste le caratteristiche principali del volume che sarà presentato a Foggia venerdì 22 novembre, alle ore 18,30, presso la Libreria Mondadori, Via Oberdan 9/11. La serata di presentazione sarà introdotta dall’avvocato Massimiliano Arena, presidente della Camera Minorile di Capitanata, a cui seguirà l’intervento dell’autrice Olga Anastasi, avvocato, a colloquio con Costanzo Cea, magistrato, Presidente della I sezione civile del Tribunale di Foggia.

“Vivere una separazione o un divorzio – è scritto nella nota che presenta il libro – è come affrontare un viaggio in terra straniera, un luogo dove non si è mai stati e in cui le abitudini e il linguaggio appaiono completamente sconosciuti: i protagonisti del viaggio non sono sempre in grado di intuire dove vorranno essere emotivamente e fisicamente quando la vicenda si sarà conclusa. Si provano rancore, rabbia, senso di frustrazione e nel processo tradizionale i sussulti dell’anima sono trascurati. I figli sono le prime vittime di separazione e divorzio. Attraverso il metodo del divorzio collaborativo, rendendo la parte responsabile delle sue scelte, l’avvocato realizza in maniera ampia il suo ruolo sociale di interprete del diritto delle relazioni affettive offrendo alla coppia un’alternativa affinché ciascuno si assuma nuovamente il più arduo dei compiti, la conoscenza e l’accettazione di sé e dell’altro”.

Ronald D. Ousky, avvocato statunitense cofondatore del diritto collaborativo, ha dedicato al libro la sua prefazione, tradotta da Paolo Prezzavento e Paola Pallotta, la quale ha curato anche l’editing del testo. L’artista Giuseppe Stampone, vincitore dell’Art Residency all’Accademia americana a Roma e del ‘Pacco d’artista’ di Poste Italiane, è l’autore dell’opera in copertina, pezzo unico realizzato appositamente per la pubblicazione con penna bic su carta e il cui titolo ‘Me too’ vuole essere un omaggio all’anima collaborativa dell’iniziativa. https://www.amazon.it/divorzio-collaborativo-Larte-separarsi-amore-ebook/dp/B00UTCNIBM

 

IL DIVORZIO COLLABORATIVO, recensione a cura di Benedetta Piola Caselli

Nel caos emozionale che precede, perdura e segue la fine di un rapporto, è possibile gestire la conflittualità in modo collaborativo? Gli americani ci hanno provato, ed hanno elaborato delle strategie di negoziazione per portare i partner a scegliere l’ottimo di lungo periodo su quello, più contingente, del breve.

Anche perché – come è nell’esperienza di tutti – il successo immediato (un assegno più alto, l’affidamento dei figli etc…) può rivelarsi una vittoria di Pirro (lui smette di pagare, figli psicologicamente distrutti…); ed il carico emozionale che deriva da conflitti non risolti può rovinare, in un crescendo di fantasmi e recriminazioni, anche la nuova vita di chi crede di aver “vinto”.

Trasformare il dolore in un momento di crescita è, però, possibile: ma occorrono tre cose.

Primo: il rispetto dei tempi emozionali di ciascuna parte. Può accadere che, mentre per uno dei coniugi il rapporto sia già esaurito, l’altro cerchi ancora un contatto attraverso pretesti di litigio.

La fenomenologia può essere diversa – dalla regolamentazione delle visite ai figli al servizio da caffè di nonna Assunta-; le pretese dichiarate tutte più o meno apparentemente fondate; ma la ragione di fondo quasi sempre è unica: una delle parti non è veramente pronta al distacco.

Viste in questo modo, le ragioni dell’ostilità non sono occasione di giudizio sulla maturità/immaturità-adeguatezza/inadeguatezza-bontà/cattiveria delle parti, ma chiavi di lettura delle dinamiche di coppia. La comprensione di questi modelli di azione emozionale, spesso inconsci, ed il rispetto del dolore e dello smarrimento che rappresentano, costituisce il primo tassello per uno scioglimento armonico del rapporto.

Secondo: responsabilizzazione delle parti sulla posizione avuta in coppia e sulle cause dello scioglimento, in modo che nessuna si consideri vittima della forza prevalente dell’altra. Anche nei rapporti più sbilanciati, i piani del carnefice sono negli occhi della vittima: la presa di coscienza sul proprio ruolo e sulle conseguenze del proprio atteggiamento, riporta in entrambi i partner la fiducia sulla possibilità di “essere in controllo”della propria vita, ed impedisce i risentimenti dovuti alla percezione di aver subito ingiustizie ed abusi.

Terzo: una distribuzione patrimoniale equa. Nel divorzio collaborativo l’obiettivo non è riuscire ad avere il massimo possibile, ma trovare una soluzione di compromesso che eviti l’accendersi di liti future o il continuo rinegoziamento delle condizioni di separazione.

Ovviamente, in questo quadro la figura dell’avvocato deve essere completamente ripensata, poiché non si tratta più di vincere attraverso una prova di forza o un’astuta eccezione processuale, ma di costituire e coordinare un team (psicologo, mediatore, stimatore dei beni) con cui programmare un settlement di lungo periodo. In ciò, all’avvocato non è chiesto di essere mediatore imparziale, ma di assistere tecnicamente la parte, con la rilevante differenza di spingerla verso soluzioni che abbattono – e non incrementano – la conflittualità.

La conoscenza della legge diventa fondamentale in tutti e tre i momenti, perché le regole –se adeguatamente presentate- offrono alle parti un criterio oggettivo per valutare i supposti abusi affettivi, fisici e patrimoniali.

Armonia, non vittoria; prevalenza del “noi” sull’“io”: questo deve essere lo scopo del professionista, che addirittura mette nero su bianco il suo impegno a non assistere la parte in caso il tentativo della strada collaborativi fallisca.

Una rivoluzione copernicana, quindi, nel modo di impostare la propria opera professionale, che il bel libro di Olga Anastasi ha il merito di proporre e dimostrare possibile; nonché un’indicazione chiara di quello che dovrebbe essere il buon avvocato di famiglia: una figura che sappia unire all’alto tecnicismo, profonda sensibilità e buon senso.

Benedetta Piola Caselli, Avvocati di famiglia, 4, 2013 http://www.osservatoriofamiglia.it/moduli/17505652__Avvocati%20di%20famiglia%204%202013.pdf

IL DIVORZIO COLLABORATIVO, recensione a cura di Leonardo Carbone

Olga Anastasi, Il divorzio collaborativo, Capponi editore, Ascoli Piceno, 2013, pagg. 98, € 12,00.

È uscito in silenzio, per i tipi di una piccola casa editrice di Ascoli Piceno, il volumetto recensito curato da un avvocato matrimonialista, ma per la tematica affrontata e la descrizione di una “nuova tecnica” per separarsi (“divorzio collaborativo”), sono sicuro che avrà successo editoriale.

Infatti, quando si parla di separazione e divorzio, il pensiero del comune cittadino va subito ai piatti che volano in cucina, ai litigi “violenti”. Dopo avere letto il volumetto ci si rende conto, però, che la separazione o il divorzio può avvenire anche senza “spargimento di sangue”. Perché ciò avvenga è, però, necessario leggere il libro recensito, in cui l’autrice accompagna il lettore in tutto il percorso che deve seguire per una “buona” separazione o divorzio, anzi accompagna il lettore nella pratica del divorzio collaborativo.

Il volume, con la prefazione di Ronald D. Ousky (pioniere del divorzio collaborativo che ha contribuito a diffondere in tutto il mondo l’idea del suo collega e maestro, l’avvocato Stuart G. Webb di Minneapolis), affronta nella prima parte le “modalità” di separazione e divorzio in Italia (separazione consensuale, separazione giudiziale, addebito della separazione, assegno di mantenimento, divorzio). Nella seconda parte tratta della creatività dell’affidamento condiviso, per passare, nelle parti successive, al diritto collaborativo, dilungandosi ampiamente (ed egregiamente) sull’etica del divorzio collaborativo, e sull’accordo di partecipazione alla pratica collaborativa.

Come si legge nella quarta di copertina del volume, vivere una separazione o un divorzio è come affrontare un viaggio in terra straniera, un luogo dove non si è mai stati e in cui le abitudini e il linguaggio appaiono completamente sconosciuti: i protagonisti del viaggio non sono sempre in grado di intuire dove vorranno essere emotivamente e fisicamente quando la vicenda sarà conclusa. Si provano rancore, rabbia, senso di frustrazione e nel processo tradizionale i sussulti dell’anima sono trascurati. I figli sono le prime vittime di separazione e divorzio.

Attraverso il metodo del divorzio collaborativo, rendendo la parte responsabile delle sue scelte, l’avvocato realizza in maniera ampia il suo ruolo sociale di interprete del diritto delle relazioni affettive offrendo alla coppia un’alternativa affinchè ciascuno si assuma nuovamente il più arduo dei compiti, la conoscenza e l’accettazione di sé e dell’altro.

Completano il volume un dettagliato indice sommario, una ricca bibliografia e riferimenti normativi.

È un volume che si legge “piacevolmente” e una volta iniziata la lettura, si arriva facilmente alla fine, grazie anche allo stile sobrio. Il tutto non può che essere di buon auspicio per il successo del volume, anche per il costo “ridottissimo”.

Leonardo Carbone – Toga Picena, 8 dicembre 2013

UN APPROCCIO CONDIVISO di Nicoletta Barazzoni – Agorà, 30 maggio 2014

Divorzio. È possibile separarsi o divorziare in modo sereno ed equilibrato, per il bene dei illustrazione Bruno Machadocomponenti della famiglia, senza trascinare per tutta la vita odio e rancore? C’è solo un modo per separarsi (o divorziare) oppure ve ne sono molti tra i quali scegliere?

Il divorzio collaborativo si distingue nettamente dai procedimenti contenziosi di risoluzione delle controversie. Stiamo parlando di un approccio più indolore, attuato attraverso diverse opzioni improntate al dialogo, alla negoziazione ragionata, con un approccio multidisciplinare che chiama in causa anche altre figure professionali come psicologi, consulenti finanziari, specialisti dell’infanzia e operatori sociali. Non bisogna però confondere il divorzio collaborativo con la mediazione. La mediazione si avvale dell’intervento di una terza persona (il mediatore), un professionista imparziale e neutro che non è necessariamente un avvocato. La mediazione concilia le parti, migliorando la qualità della comunicazione ma non risolve gli aspetti giuridici che invece l’avvocato collaborativo può affrontare in specifico. Il divorzio collaborativo si attua con l’intervento di due legali e i rispettivi ex coniugi, che si siedono tutti allo stesso tavolo con finalità univoche. La negoziazione nel divorzio collaborativo è basata infatti sulla ricerca degli interessi reciproci. La partecipazione attiva tra le parti si svolge all’insegna della trasparenza e dell’onestà, con l’obiettivo di far prevalere l’aspetto umano su tutto.

Il ruolo degli avvocati – La pratica collaborativa mette alla prova i professionisti sotto profili che non sono necessariamente considerati dai codici deontologici delle singole categorie. Il divorzio è considerato un fatto giudiziario e dunque l’avvocato esercita la sua professione con diligenza, con coscienza, in conformità all’ordinamento giuridico. Paragonabile per certi aspetti soltanto alla responsabilità che il medico ha verso il paziente, l’etica dell’avvocato non sempre considera l’aspetto legato al vissuto precedente di coloro i quali, fino a poco tempo prima, erano marito e moglie. L’avvocato ha una responsabilità enorme nei confronti del cittadino/cliente che sta patrocinando. Tutelare il cliente e far valere i suoi diritti spesso significa creare un rapporto tra il diritto e il conflitto. Un avvocato bravo è spesso, e purtroppo, sinonimo di persona competitiva e agguerrita, un tecnico che affronta la questione con professionalità e serietà dal profilo giuridico, non tenendo però sempre conto del coinvolgimento affettivo perché quello non è il suo compito. Esistono tuttavia tipologie di avvocati come ci sono tipologie di idraulici, medici, giornalisti o panettieri. È il caso, per esempio, dei professionisti che si formano come mediatori riconosciuti dalla Federazione svizzera degli avvocati proprio per assolvere il loro compito legale mediando tra le parti, con l’intento primario di individuare una soluzione il più indolore possibile per tutti i membri della famiglia.

Sulla figura dell’avvocato – Abbiamo compiuto un mini sondaggio aleatorio tra alcuni divorziati chiedendo cosa pensassero della figura dell’avvocato sulla base della loro personale esperienza. Ecco che cosa ne abbiamo ricavato: “Nulla di più vero del proverbio che recita che tra i due litiganti l’avvocato gode!”; “L’avvocato pensa solo al suo interesse e dopo all’interesse del suo cliente!”; “L’avv. (abbreviazione di avvoltoio) è un professionista d’assalto!”; “Il suo motto è vincere, spennare l’ex coniuge, facendogliela pagare!”; “Esegue il suo mandato a testa bassa per portarsi a casa il bottino migliore!”; “Per lui la relazione affettiva è solo un intralcio!”; “Il nostro avvocato non ha fatto molto e quel poco che ha fatto potevo benissimo farlo da sola!”; “È stata durissima trovare un avvocato disposto a rappresentarci perché tanti studi legali si rifiutano di dare assistenza alle persone povere come noi!”; “L’avvocato è stata una figura indispensabile. Senza di lui non saremmo mai arrivati ad un accordo equo. È anche vero che tira le cause alla lunga per un suo vantaggio economico!”; “Gli avvocati sono la rovina totale della coppia in una situazione già delicata come un divorzio!”; “Per quanto riguarda la mia (lontana) esperienza, dal momento che all’epoca non esisteva la possibilità del divorzio consensuale, l’avvocato (d’accordo con la controparte) è servito a rendere il più semplice possibile la causa!”; “La mia legale mi ha fatto da psicologa ma a un certo punto della causa mi ha abbandonato perché non condivideva i metodi della controparte!”; “Ricordo poco del mio avvocato, se non che mi spingeva a prendermi tutti i miei diritti ma rispettando anche il fatto di non dovermi soffermare troppo a discutere, procrastinando nel tempo il divorzio, così ho dovuto lasciar perdere molti soldi!” ecc.

Olga Anastasi è l’autrice del libro Il divorzio collaborativo (Capponi editore, 2013). È avvocato, vive e lavora ad Ascoli Piceno. È attiva anche in associazioni come Telefono donna e nei centri di accoglienza.

Signora Anastasi, innanzitutto qual è il nucleo originale del divorzio collaborativo, su cosa poggia e che cosa porta di fondamentale?

“Il termine si riferisce a un metodo adottato all’inizio degli anni novanta nel Nord America da avvocati formati, coadiuvati da altri specialisti delle tematiche familiari che mira a risolvere conflitti. Evita le contrapposizioni violente tipiche del metodo giudiziario e previene traumi ai figli coinvolti. È condotto con un processo stragiudiziale, con l’utilizzo di saperi multidisciplinari e tecniche di negoziazione. La minaccia di adire il tribunale è motivo di rinunzia al mandato dell’avvocato collaborativo.”

Cosa si vuole ottenere con questo approccio? E quali sono i passi di tipo pratico da affrontare?

“La negoziazione del conflitto deve tendere al raggiungimento di un accordo siglato dalle parti. In Italia deve essere trasformato in un ricorso congiunto di separazione o divorzio. Nel rivolgersi a un avvocato che pratica il diritto collaborativo è bene chiedere approfondimenti e ulteriori spiegazioni nonché che il proprio coniuge venga contattato con le modalità previste dalle regole collaborative.”

Per quali motivi si dovrebbe optare per un divorzio collaborativo e quali vantaggi porta?

L’attenzione per gli aspetti emotivi e psicologici che di solito sono trascurati. Il processo si trasforma in un’occasione di crescita dell’individuo, la coppia viene indirizzata ad assumere scelte consapevoli nell’interesse del nucleo familiare piuttosto che iniziative dettate dal rancore, dalla paura e dal senso di rivalsa.”

Sembra un approccio di grande interesse, perché allora fa fatica a prendere piede? Forse perché è una sfida etica?

“Dall’entrata in vigore della normativa sull’affidamento condiviso le coppie sono diventate più consce del diritto/dovere alla bigenitorialità, affiora una maggiore disponibilità a superare i rancori e a prevedere soluzioni alternative, a meno che non si discuta di gravi abusi o maltrattamenti. La resistenza è soprattutto culturale, legata al tempo e ai mutamenti che ogni novità richiede. Gli avvocati manifestano una personalità tendente all’individualismo e una formazione basata esclusivamente sulla conoscenza esclusiva delle leggi e della giurisprudenza. Fatica ad attecchire l’idea che l’avvocato debba lavorare in squadra e facendo proprie le conoscenze multidisciplinari.

Christoph Imhoos ha fondato a Ginevra l’Associazione svizzero romanda di diritto collaborativo. È formatore nella gestione dei conflitti, insegna all’università di Ginevra. È mediatore iscritto in vari ambiti professionali, e titolare del Master europeo in mediazione.

Avvocato Imhoos, nella sua pratica ha mai affrontato dei divorzi collaborativi?

“No. Il problema è proprio questo. Molti sono interessati ma nessuno lo vuole fare perché tutti hanno paura. L’approccio al diritto collaborativo implica un cambiamento di paradigma. Questo significa che l’avvocato non ha più il compito di attaccare la parte avversa, ed essere dunque nel contraddittorio, ma è presente non soltanto per sostenere il suo cliente ma anche e soprattutto per tener conto dell’altro cliente, con lo scopo di arrivare a un intento e a un accordo equo, che sia giusto per entrambi. L’avvocato invece di interessarsi unicamente agli interessi del suo cliente analizza anche la parte avversa. Bisogna riconoscere che l’avvocato non è abituato a questa modalità. Con il diritto collaborativo ci si focalizza sulla negoziazione. Tutti gli avvocati dicono: “ma è normale, si cerca sempre di trovare un accordo bonale, siamo sempre in fase di negoziazione prima di andare a processo”. Salvo che nel diritto collaborativo ci sono due cose importanti: non si procede e dunque non si negozia con il metodo classico. Di solito l’avvocato ha l’abitudine di negoziare su posizioni, e questo significa: tu hai la tua posizione, io ho la mia posizione, cerchiamo il compromesso. E questo implica l’abbandono di una parte della propria posizione per trovare un accordo più o meno soddisfacente. Ma più o meno soddisfacente! Nel diritto collaborativo si utilizzano i principi della negoziazione ragionata, che implica l’interesse e i bisogni di entrambi, andando a fondo delle esigenze e delle difficoltà. La missione dell’avvocato è quella di permettere al cliente di esprimere i suoi interessi alla presenza della controparte: cosa voglio, cosa è importante per me, cosa mi ha portato in questa situazione, cosa mi succede se viene presa questa decisione? Si condividono le richieste, con l’analisi dei bisogni e degli interessi reciproci anche se non sono identici. Nel diritto collaborativo si applica lo stesso approccio della mediazione. Sono gli avvocati che sono dei mediatori, che intervengono nelle mediazioni per assistere e aiutare i loro clienti. Il tratto dell’avvocato è quello di consigliare ma anche di sostenere e aiutare nella negoziazione per permettere un confronto a quattro che non sfoci nella lite.”

Pensa che la paura di certi avvocati sia legata non solo al cambiamento di paradigma ma anche a degli interessi finanziari?

“L’avvocato deve cambiare il suo ruolo, non può più monopolizzare la parola e negoziare al posto del cliente ma è presente e si impegna per permettere di trovare un accordo congiunto che sia il più equo possibile. Non lascia spazio alla sensazione di avere dovuto rinunciare a una parte determinante per il futuro. L’avvocato collaborativo è assolutamente cosciente di questo e dunque la paura consiste anche nella consapevolezza che non è facile riempire un ruolo che è molto differente da quello citato inizialmente: ovvero non essere più nel contraddittorio ma essere alla ricerca di un terreno comune sul quale edificare equilibri nuovi e diversi. Molti avvocati lo trovano interessante ma se evidentemente pensano ai loro propri interessi finanziari non è necessariamente lo stesso procedimento. L’avvocato che ha paura perché con questo approccio teme di guadagnare di meno, non si giustifica a medio e lungo termine. C’è un lungo lavoro da fare in questa direzione perché sappiamo bene come un conflitto sia distruttivo per l’intera società.

La responsabilità etica dell’avvocato deve tener conto anche delle istituzioni e della società?

L’avvocato ha una grande influenza perché chi si indirizza a lui gli chiede dei consigli. Se l’avvocato ha una certa etica consiglia utilmente il suo cliente. Ma utilmente, cosa significa? Utilmente dal punto di vista dell’avocato significa rispettare il punto di vista del suo cliente? E la domanda non deve essere forzatamente indirizzata al presupposto del confronto. Se il cliente è in questa logica l’avvocato ha il compito e il dovere etico di interrogarlo sui suoi reali bisogni e interessi. Deve farlo riflettere nel determinare con cognizione di causa, ipotizzando i diversi scenari e i diversi mezzi, come affrontare il processo davanti al giudice. Il processo ha dei costi finanziari, in termini di onorario, ma soprattutto ha dei costi umani.”

Sembrerebbe che l’avvocato non si interessi affatto ai costi umani…

“Direi che certi legali non accordano nessuna importanza alla relazione umana, ai suoi aspetti che non sono ritenuti prioritari. Molto spesso gli avvocati stessi non ne sono completamente coscienti e se lo sono lo sono da lontano e in ultima analisi non li concerne. Tendono a soffermarsi sulla relazione giuridica e sulla parte tecnica e alcuni, nella maggior parte dei casi, non danno assolutamente importanza alla relazione da individuo a individuo, alle implicazioni sociali e affettive per puntare unicamente alla relazione giuridica. L’avvocato gioca un ruolo, è preso dal gioco della giustizia e a volte non se ne rende conto, a detrimento però del suo cliente.”

Nella formazione accademica si impara di più a istigare al conflitto o a essere dei rappresentanti della legge?

“Diciamo che si viene preparati al confronto, all’argomento e al contro argomento, alla capacità di convincere, alla dialettica. L’avvocato collaborativo inserisce un’altra dimensione che rompe degli equilibri che fino a ora sono consolidati. Posso dire che a Ginevra si stanno aprendo nuove evoluzioni. Abbiamo cerato una scuola di avvocatura dove si insegna agli avvocati già formati le tecniche della negoziazione ragionata, cosa significa e come si applica la mediazione, e gli aspetti del diritto collaborativo per spiegare loro che esistono altri modi possibili per dirimere le controversie. Siamo un piccolo gruppo di avvocati che sta cercando di lanciare questo procedimento, ma dopo mesi di discussione alla fine mi sono ritrovato solo. La maggior parte degli avvocati non sono pronti a firmare un contratto di partecipazione tra le parti. Bisogna formare i giovani avvocati a questo approccio. Ci sono troppi avvocati, in genere ci si schiera tra fazioni, invece di lavorare insieme per il bene di tutti.

Note – Il divorzio collaborativo è nato in America e si sta diffondendo con una certa rilevanza ma a fatica anche in Europa. La pratica collaborativa ha avuto inizio in Svizzera nel 2004. Vi sono oltre sette soci IACP e due gruppi di lavoro in tutto il paese. Gli avvocati praticanti di diritto collaborativo in Svizzera vantano un’esperienza collettiva pluriennale in materia di divorzio, separazione e altre questioni relative al diritto di famiglia. Tutti i soci IACP condividono la convinzione profondamente radicata che la pratica collaborativa offra l’opportunità di risolvere le controversie legali in modo rispettoso e dignitoso (collaborativepractice.com/public/about/resources-for-thepublic/ collaborative-practice-groups-around-the-world/switzerland.aspx; collaborativedivorce.net/history-of-collaborative-divorce/). – In Ticino si possono trovare avvocati formati nella mediazione. Online è disponibile una lista dei mediatori in Ticino con titolo riconosciuto dalla Federazione svizzera degli avvocati: mediatori-ti.ch/cms/fileadmin/Dokumente_CMTI

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