Nel caos emozionale che precede, perdura e segue la fine di un rapporto, è possibile gestire la conflittualità in modo collaborativo? Gli americani ci hanno provato, ed hanno elaborato delle strategie di negoziazione per portare i partner a scegliere l’ottimo di lungo periodo su quello, più contingente, del breve.
Anche perché – come è nell’esperienza di tutti – il successo immediato (un assegno più alto, l’affidamento dei figli etc…) può rivelarsi una vittoria di Pirro (lui smette di pagare, figli psicologicamente distrutti…); ed il carico emozionale che deriva da conflitti non risolti può rovinare, in un crescendo di fantasmi e recriminazioni, anche la nuova vita di chi crede di aver “vinto”.
Trasformare il dolore in un momento di crescita è, però, possibile: ma occorrono tre cose.
Primo: il rispetto dei tempi emozionali di ciascuna parte. Può accadere che, mentre per uno dei coniugi il rapporto sia già esaurito, l’altro cerchi ancora un contatto attraverso pretesti di litigio.
La fenomenologia può essere diversa – dalla regolamentazione delle visite ai figli al servizio da caffè di nonna Assunta-; le pretese dichiarate tutte più o meno apparentemente fondate; ma la ragione di fondo quasi sempre è unica: una delle parti non è veramente pronta al distacco.
Viste in questo modo, le ragioni dell’ostilità non sono occasione di giudizio sulla maturità/immaturità-adeguatezza/inadeguatezza-bontà/cattiveria delle parti, ma chiavi di lettura delle dinamiche di coppia. La comprensione di questi modelli di azione emozionale, spesso inconsci, ed il rispetto del dolore e dello smarrimento che rappresentano, costituisce il primo tassello per uno scioglimento armonico del rapporto.
Secondo: responsabilizzazione delle parti sulla posizione avuta in coppia e sulle cause dello scioglimento, in modo che nessuna si consideri vittima della forza prevalente dell’altra. Anche nei rapporti più sbilanciati, i piani del carnefice sono negli occhi della vittima: la presa di coscienza sul proprio ruolo e sulle conseguenze del proprio atteggiamento, riporta in entrambi i partner la fiducia sulla possibilità di “essere in controllo”della propria vita, ed impedisce i risentimenti dovuti alla percezione di aver subito ingiustizie ed abusi.
Terzo: una distribuzione patrimoniale equa. Nel divorzio collaborativo l’obiettivo non è riuscire ad avere il massimo possibile, ma trovare una soluzione di compromesso che eviti l’accendersi di liti future o il continuo rinegoziamento delle condizioni di separazione.
Ovviamente, in questo quadro la figura dell’avvocato deve essere completamente ripensata, poiché non si tratta più di vincere attraverso una prova di forza o un’astuta eccezione processuale, ma di costituire e coordinare un team (psicologo, mediatore, stimatore dei beni) con cui programmare un settlement di lungo periodo. In ciò, all’avvocato non è chiesto di essere mediatore imparziale, ma di assistere tecnicamente la parte, con la rilevante differenza di spingerla verso soluzioni che abbattono – e non incrementano – la conflittualità.
La conoscenza della legge diventa fondamentale in tutti e tre i momenti, perché le regole –se adeguatamente presentate- offrono alle parti un criterio oggettivo per valutare i supposti abusi affettivi, fisici e patrimoniali.
Armonia, non vittoria; prevalenza del “noi” sull’“io”: questo deve essere lo scopo del professionista, che addirittura mette nero su bianco il suo impegno a non assistere la parte in caso il tentativo della strada collaborativi fallisca.
Una rivoluzione copernicana, quindi, nel modo di impostare la propria opera professionale, che il bel libro di Olga Anastasi ha il merito di proporre e dimostrare possibile; nonché un’indicazione chiara di quello che dovrebbe essere il buon avvocato di famiglia: una figura che sappia unire all’alto tecnicismo, profonda sensibilità e buon senso.
Benedetta Piola Caselli, Avvocati di famiglia, 4, 2013 http://www.osservatoriofamiglia.it/moduli/17505652__Avvocati%20di%20famiglia%204%202013.pdf