Ascoli Piceno, 28 novembre 2015
VIVIR CON MIEDO ES COMO VIVIR A MEDIES di Olga Anastasi
C’è un vecchio proverbio spagnolo che recita “vivere con la paura è come vivere a metà”. Leggo le parole di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ora primo ministro birmano, perché sono quasi il programma della sua lotta per la libertà: “Dobbiamo essere liberi dalla paura. Non è il potere che corrompe, ma la paura. Il timore di perdere il potere corrompe chi lo detiene e la paura del castigo da parte del potere corrompe chi ne è soggetto”. Non c’è bisogno di moltiplicare i commenti attorno a una verità così lampante. La paura, infatti, è la radice di tante vergogne che si commettono. La paura di perdere una carica ti vota all’adulazione, all’inganno, all’umiliazione. La paura di perdere un affetto ti spinge alla gelosia e ad atti meschini. La paura di perdere il predominio sugli altri ti rende implacabile e fin crudele. La paura di perdere la fama ti fa vanitoso e fatuo. Potremmo andare avanti a lungo in questa litania di debolezze e miserie. Va distinta la paura da un’altra realtà che usiamo di solito come sinonimo: il timore. Spesso, infatti, si crede di essere audaci perché non si ha più rispetto dell’altro e si diventa, così, arroganti, insolenti, impertinenti. Se la paura può essere un difetto, il timore è una virtù. Nella Bibbia si legge: «Il timore del Signore è principio di sapienza» (Proverbi 1,7).
Come possiamo vincere la paura, è la domanda. Attraverso la conoscenza, l’acquisizione di consapevolezze, studiando, curando la nostra educazione e quella del nostro prossimo più vicino. L’uso del mito è un punto di partenza perché il mito è la favola, il racconto, la rappresentazione allegorica di un’idea, di un concetto che diventa archetipo, esemplare, modello che trascende le cose sensibili e che può aiutarci a interpretare la realtà. Un pò come dice Quentin Tarantino, “non puoi conoscere i fatti se non conosci la fiction”.
La tragedia rappresentata oggi è stata “Le troiane” di Euripide nel cui dramma la presenza viva e acuta del dolore si congiunge con la convinzione dell’eroicità della sventura di fronte alla vittoria dei distruttori. Tale vittoria è però solo apparente, poiché ognuna delle protagoniste dell’opera trova il modo di reagire, a proprio modo, alla tremenda sventura che le ha colpite. I vincitori, invece, che sono poi alcuni dei più grandi eroi della mitologia greca, si comportano solo come insensati aguzzini, capaci della più bruta barbarie senza la minima remora. Le donne troiane insomma hanno perso tutto, ma non la loro dignità umana, che invece gli spietati soldati greci sembrano non aver mai posseduto. Ecco, ragionando per iperbole, oserei dire che usando il mito agiamo un po’ come con ciò che avviene con il diritto che studia la fattispecie astratta, ossia il comportamento previsto in generale dalla norma, a cui l’ordinamento ricollega determinate conseguenze giuridiche e, analizzando la fattispecie concreta, ciò che è avvenuto nella realtà, dalla loro eventuale coincidenza, attraverso un procedimento di sussunzione, può indurci a ritenere che a quel caso si applichi quella determinata norma. Il diritto accompagna la vita di ogni essere umano fin dall’infanzia e la maggior parte dei comportamenti, individuali o sociali, sono da esso previsti e disciplinati. Per tale motivo è fondamentale non solo conoscere le regole che guidano i rapporti della convivenza, ma soprattutto interiorizzarle. Qualsiasi norma, infatti, per avere attuazione, non può essere semplicemente accompagnata dalla sua coercibilità, ma deve essere espressione di un precetto che il destinatario riconosce come proprio.
Appare fondamentale pertanto offrire alle nuove generazioni la possibilità di conoscere le ragioni profonde dei doveri e dei diritti poiché potrebbe non essere sufficiente a prevenire le condotte illecite soltanto la consapevolezza delle conseguenze che possono scaturire, per sé e per gli altri, dalla violazione di una norma, così come potrà essere maggiormente apprezzata la conquista di un diritto perché se ne conosce il fondamento. In questa logica il format dell’Unione Nazionale Camere Minorili sulla legalità nella parte in cui si sofferma, per le fasce di studenti adolescenti, sulla sfera legale-affettiva li stimola a conoscere e interiorizzare i principi giuridici, in particolare costituzionali, relativi all’inviolabilità della persona, a individuare ipotesi relazionali in cui vengano coinvolti rapporti amicali, affettivi, sessuali di minorenni tra di loro e di minorenni con maggiorenni giungendo a identificare eventuali disfunzioni dei rapporti e disagi connessi e le conseguenze sia in termini sociali che giuridici. Questo nella prevenzione.
Quando invece ci troviamo a lavorare nella disfunzione, con la violenza in atto subita nella violenza domestica, ambito a cui ci dedichiamo oggi, abbiamo a che fare con un individuo che lotta innanzitutto contro sé stesso e con i propri fantasmi interiori. Per chi conosce la favola di Barbablù, sia nell’interpretazione di Bettelheim che in quella rivisitata delle versioni latino americane di “Donne che corrono con i lupi” di Clarissa Pinkola Estés, è il predatore innato che in psicanalisi rappresenta il dramma interiore di ogni donna, acquattato all’interno della psiche di ogni individuo lo costringe a uno stato di profonda reclusione e ci osserva per contrastarci. La donna vittima di violenza lotta pertanto con questo dissennatore della sua psiche prima ancora che con il proprio aggressore. Tutti hanno paura infatti ma ciò che fa la differenza è il modo di affrontarla, di trovare soluzioni al problema con un atteggiamento positivo. Occorre essere capaci di assumersi la responsabilità della propria infelicità e agire per migliorare. Affrontare il cambiamento che è innanzitutto cambiamento contro se stessi. Lottare contro il proprio aggressore all’interno delle pareti domestiche comporta questo. La donna vittima di violenza domestica teme sé stessa e ciò che l’aspetta, teme di dover tradire sé stessa andando contro tutto ciò che aveva agito sino ad allora. L’etimologia del termine paura deriva dal latino: pat-veo = scuoto; percuotere, urtare, atterrire, incutere timore; forte movimento d’animo con turbamento dei sensi per cui l’individuo è eccitato a fuggire un oggetto, una persona o una situazione che gli pare nocivo. Un caposaldo della letteratura psicanalitica junghiana, “Amare tradire” di Aldo Carotenuto descrive come il tradimento non sia che obbedienza all’imperativo, inscritto nella stessa dinamica evolutiva della psiche, di emanciparsi da tutto ciò che ci mantiene fedeli a un’immagine che non ci corrisponde, e che risponde invece alle richieste dell’ambiente sociale o al desiderio dei suoi interlocutori.
I dati sulla violenza pubblicati a giugno 2015 ci dicono comunque che il quadro va lentamente migliorando nel senso che il 68% di donne che avevano un partner violento lo lascia a causa della violenza subita, per il 41,7% la violenza è stata la causa della separazione, le donne giovani (16-24 anni) rispetto al 2006 denunciano un numero inferiori di violenze subite, segno che la coscienza femminile sta crescendo e intacca i livelli di violenza fisica, sessuale e psicologica. Purtroppo tuttavia a volte nemmeno la forza del cambiamento ci salva dalla follia del gesto insensato come è accaduto mercoledì 25 novembre scorso a una donna, collega perugina, moglie e madre, assassinata a colpi di fucile dal marito, mentre il bambino di sei anni della coppia si trovava in un’altra ala della villa, e dopo che già il marito aveva usato violenza alla moglie rompendole un timpano, per accessi di ira e gelosia.
Secondo la definizione che ne dà la Convenzione Instanbul approvata dal Consiglio d’Europa nel maggio 2011 ed entrata in vigore in Italia dal 1^ luglio 2013 per effetto di legge di ratifica 27 giugno 2013, n. 77, con l’espressione “violenza domestica” si designano tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare o tra attuali o precedenti coniugi o partner, indipendentemente dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la stessa residenza con la vittima (art. 3 lettera b). Con il termine “donne” sono da intendersi anche le ragazze di meno di 18 anni (art. 3 lettera f). Tale normativa internazionale ha di fatto preceduto e ispirato il cd. decreto legge sul femminicidio (Decreto Legge 14 agosto 2013, n. 93 convertito in Legge 15 ottobre 2013, n. 119 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale 15 ottobre 2013, n. 242), famoso innanzitutto perché ha introdotto un altro concetto, quello della “violenza assistita” o percepita, una nuova circostanza aggravante comune: “l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all’articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” (art. 61, comma 1, n. 11-quinquies).
Il decreto legge sul femminicidio reca nuove norme per il contrasto della violenza di genere che hanno l’obiettivo di prevenirlo e proteggere le vittime, rendendo più incisivi gli strumenti della repressione penale dei fenomeni di maltrattamenti in famiglia, violenza sessuale e di atti persecutori (stalking). Sono quindi inasprite le pene quando:
- il delitto di maltrattamenti in famiglia è perpetrato in presenza di minore degli anni diciotto;
- il delitto di violenza sessuale è consumato ai danni di donne in stato di gravidanza;
- il fatto è consumato ai danni del coniuge, anche divorziato o separato, o dal partner.
Un secondo gruppo di interventi riguarda il delitto di stalking:
- viene ampliato il raggio d’azione delle situazioni aggravanti che vengono estese anche ai fatti commessi dal coniuge pure in costanza del vincolo matrimoniale, nonché a quelli perpetrati da chiunque con strumenti informatici o telematici;
- viene prevista l’irrevocabilità della querela per il delitto di atti persecutori nei casi di gravi minacce ripetute (ad esempio con armi).
Sono previste poi una serie di norme riguardanti i maltrattamenti in famiglia:
- viene assicurata una costante informazione alle parti offese in ordine allo svolgimento dei relativi procedimenti penali;
- viene estesa la possibilità di acquisire testimonianze con modalità protette allorquando la vittima sia una persona minorenne o maggiorenne che versa in uno stato di particolare vulnerabilità;
- viene esteso ai delitti di maltrattamenti contro famigliari e conviventi il ventaglio delle ipotesi di arresto in flagranza;
- si prevede che in presenza di gravi indizi di colpevolezza di violenza sulle persone o minaccia grave e di serio pericolo di reiterazione di tali condotte con gravi rischi per le persone, il Pubblico Ministero – su informazione della polizia giudiziaria – può richiedere al Giudice di irrogare un provvedimento inibitorio urgente, vietando all’indiziato la presenza nella casa familiare e di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa.
Infine, è stabilito che i reati di maltrattamenti ai danni di familiari o conviventi e di stalking sono inseriti tra i delitti per i quali la vittima è ammessa al gratuito patrocinio anche in deroga ai limiti di reddito (il gratuito patrocinio a prescindere dal reddito è previsto anche per le vittime di mutilazioni genitali femminili). Ciò al fine di dare, su questo punto, compiuta attuazione alla Convenzione di Istanbul, recentemente ratificata, che impegna gli Stati firmatari a garantire alle vittime della violenza domestica il diritto all’assistenza legale gratuita. Sempre in attuazione della Convenzione di Istanbul, si prevede il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi di protezione (Tutela vittime straniere di violenza domestica, concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari come già previsto dall’articolo 18 del TU per le vittime di tratta).
Le avvocate delle case delle donne e dei centri antiviolenza dell’Associazione nazionale D.i.Re, Donne in rete contro la violenza, impegnate su tutto il territorio nazionale, sia in sede civile che penale, nella difesa delle donne vittime di violenza maschile, nel loro comunicato annuale hanno denunciato prassi giudiziarie che minano l’attuazione dei principi e degli obiettivi della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, atto internazionale vincolante, entrato in vigore in Italia il primo agosto del 2014. Si tratta di prassi che, di fatto, ostacolano la scelta della donna di chiudere la relazione con il partner violento e ledono i suoi diritti inviolabili. “In primo luogo, si rileva che l’accesso alla giustizia e la conseguente richiesta di tutela per la propria incolumità psicofisica è pregiudicato dalla non tempestività dell’intervento da parte degli operatori coinvolti in violazione degli articoli 49 e 50 della Convenzione. In particolare, si segnala che le forze dell’ordine non sempre trasmettono con immediatezza la notizia di reato alle Procure, così ritardando l’immediata iscrizione della notizia di reato e lasciando la donna priva di tutela proprio nel momento di massimo rischio per la sua incolumità: è, infatti, con la presentazione della denuncia/querela che nella maggioranza dei casi l’uomo aumenta di intensità la sua condotta violenta per punire la scelta della donna di interrompere la relazione. Spesso ancora da parte dell’autorità giudiziaria si sottovaluta la pericolosità dell’uomo violento: non si applicano le misure cautelari idonee a prevenire fatti di violenza più gravi di quelli denunciati, poche volte si procede, in caso di violazione della misura cautelare, all’aggravamento delle stesse, troppo spesso la misura cautelare perde di efficacia prima della sentenza di primo grado. Tali prassi violano gli obblighi sanciti agli articoli 51, 52 e 53 della Convenzione. Non è un caso che nella maggioranza dei casi le donne sono state uccise dai partner o ex partner dopo aver presentato la querela.
Anche in ambito civile si registra la non tempestività delle autorità nel garantire l’accesso delle donne alla giustizia se si considera che, dopo il deposito di un ricorso civile per separazione o per l’affidamento dei figli, la prima udienza presidenziale può avvenire anche dopo otto/dieci mesi; nel frattempo la donna rimane priva di tutela anche per quanto concerne gli ordini di protezione che possono disporsi in sede civile.
Poche le tutele anche per i figli minorenni vittime di violenza assistita: diffuse sono le prassi che si pongono in violazione al principio dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul che impone di considerare nelle decisioni relative all’affidamento dei figli minorenni i pregiudizi psicofisici causati agli stessi per avere assistito alla violenza. Troppo spesso viene disposto l’affidamento condiviso dei figli minori senza tener conto della pendenza di un processo penale per maltrattamenti nei confronti del padre oppure dell’applicazione di misure cautelari emesse dal tribunale penale e, a volte, anche della sentenza di condanna per maltrattamenti.
Ciò si pone in violazione dell’obbligo generale di cui all’art. 18 della Convenzione che impone la cooperazione efficace tra tutti gli organismi statali competenti comprese le autorità giudiziarie a tutela dei diritti delle donne vittime di violenza di genere. Queste prassi rappresentano una palese violazione dell’obbligo di dovuta diligenza che la Convenzione impone a tutti gli operatori statali coinvolti nel contrastare la violenza maschile contro le donne”.
Il primo suggerimento che va dato per interrompere subito il ciclo di violenza è rivolgersi subito alle forze dell’ordine o al servizio sociale e chiedere aiuto al centro antiviolenza più vicino o rivolgendosi al numero di pubblica utilità 1522 che mette in rete gli operatori. Tra le paure più comuni c’è il dopo, per l’incolumità propria e dei propri figli, problema in relazione al quale se una donna, per quanto fragile, è adulta e dunque, protetta nei centri di accoglienza, avviata a un percorso di tutela e sostegno, resa autonoma economicamente, può ragionevolmente rappresentarsi un futuro di ripresa.
Il quesito però più emergente, se invece ci sono figli, è se chiedendo aiuto e denunciando si rischia di vedersi portati via i bambini. La risposta che mi sento in coscienza di dare è che anzi, per evitare di essere considerata una madre “non tutelante” vale la pena di affrontare le proprie paure e rischiare l’alea di essere messa in discussione, come moglie, come madre, come individuo. Certo non si può generalizzare ma è dato comune che i comportamenti violenti si apprendono per emulazione e dunque i figli maschi hanno maggiori probabilità di diventare a loro volta uomini violenti e le femmine di innamorarsi di uomini come il padre, in ciò reiterando i comportamenti materni. Essenziale pertanto, in vista di rendere ai nostri figli, risulta un modello di comportamento che spezzi la catena della violenza e vinca le proprie paure.
Sia i genitori separati che le coppie conviventi (che hanno figli) si separano davanti al Tribunale ordinario. Dal momento in cui inizia la separazione e fino alla sentenza è il tribunale ordinario a decidere a chi affidare i bambini e come regolare i rapporti dei figli con il genitore non convivente.
Per effetto della vis attractiva esercitata dall’art. 38 delle Disposizioni di Att. Codice Civile (come modificato dalla Legge 219/2012 e dal Decreto Leg. 154/2013) se discutiamo di comportamenti violenti, derivanti da una violazione dei doveri di responsabilità genitoriale o da abuso di poteri che recano grave pregiudizio alla prole minorenne, tali da giustificare l’ablazione, la sospensione (art. 330 Codice Civile) o la limitazione (art. 333 C.c.) della responsabilità genitoriale, tutte le controversie ex art. 330 e 333 C. c. – se è pendente la separazione/divorzio/giudizio di affidamento ex art. 316 – la competenza è del tribunale ordinario. Prima della causa o dopo la sentenza la competenza è del Tribunale per i Minorenni del luogo dove i minori abbiano la residenza abituale.
Può assegnare compiti ai servizi sociali o prescrivere a un genitore di iniziare una terapia come fa il Tribunale per i Minorenni. Prima che cominci la separazione o dopo la sentenza è invece il TM a decidere. In questi casi il Tribunale può:
-revocare/sospendere/limitare la potestà del padre violento, che abbia posto in essere comportamenti violenti contro la prole o che l’abbia semplicemente resa vittima di violenza assistita nei sensi declinati dalla Convenzione di Instanbul di cui sopra;
-disporre l’allontanamento della prole minorenne, eventualmente insieme alla madre se vuole;
-ordinare l’allontanamento del genitore abusante, disporre divieto di contatto, stabilire eventualmente che gli incontri con i figli avvengano in forma protetta davanti ai servizi sociali.
Si tratta di provvedimenti sempre modificabili e/o revocabili a condizione che le condotte violente cessino, che ci si adegui a un percorso di verifica e sostegno previsto dal Tribunale, a condizione che si manifesti disponibilità e impegno a seguire i suggerimenti del Tribunale e del Servizio sociale, percorsi di mediazione, terapia, affidamento al Centro di Salute Mentale o delle Tossicodipendenze quando ci siano disturbi del comportamento che dipendono da patologie o abuso di sostanze, alcol e droghe, gioco d’azzardo.
ARTT. 342 BIS e ter Codice civile e 736 bis Codice di Procedura civile
Ordini di protezione contro gli abusi familiari
L’allontanamento dell’aggressore può essere chiesto anche al tribunale ordinario del luogo di residenza o domicilio della donna che chiede aiuto, con una procedura piuttosto rapida chiamata ordini di protezione contro gli abusi familiari. Il presupposto è la convivenza e una condotta che sia causa di grave pregiudizio all’integrità fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro partner. Il giudice, con un decreto che può essere emesso anche inaudita altera parte (fissando entro quindici giorni udienza per la conferma modifica o revoca) ordina la cessazione della condotta pregiudizievole e l’allontanamento dalla casa familiare con l’eventuale prescrizione di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dall’istante, il luogo di lavoro o di istruzione dei figli della coppia; il giudice può disporre l’intervento dei servizi sociali o di un centro di mediazione, oltre che delle associazioni che hanno come scopo statutario l’accoglienza di donne e minori, un assegno periodico a carico dell’abusante a favore delle persone conviventi che rimarrebbero prive di mezzi per effetto dell’allontanamento. Ha una durata massima di un anno, ha il pregio di essere più rapido rispetto al circuito penale. Scarsa applicazione, poco conosciuto, maggiormente praticato il ricorso alla denunzia-querela tra partner – efficace perché permette l’allontanamento immediato dell’abusante – scarsa ricaduta sul piano penale dunque positivo in caso di conflitto temporaneo e fisiologico alla crisi coniugale – più facile dal punto di vista probatorio in riferimento agli elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie – dura un anno e incide sulla libertà personale ma non come misura restrittiva penale – avvio all’osservazione da parte dei servizi sociali.